STORIE DI MASCIARE E DEL MAGO FERRAMOSCA
GUARITORE DEI MALI DELL’ANIMA E BELLE FANCIULLE

La vita è intrisa di magia. Masciare, maghi e fattucchieri ascoltavano i dolori della povera gente e agivano, con fatture e controfatture, contro malocchio e malefici. La storia di Ferramosca, il mago erotomane, che amava curare le fanciulle in fiore.
“Quelle donne, le ‘masciare’, si ungevano con l’olio fatato, raccolto dalla cavità di un albero di ulivo e custodito in una pignatta di terracotta, e poi attraversavano in volo la notte sulla groppa di cani bianchi”.
La storia di “Vito ballava con le streghe”, impressa nell’arenaria del Percorso delle sette pietre, racconta una storia antica di magia e di fascinazione che è viva nella memoria di questo paese.
Il paese della magia. Paese di fattucchieri e di masciare. Il borgo del mago Giuseppe Calvello, detto Ferramosca, di cui parlò anche Ernesto De Martino nei suoi studi sul mondo magico nell’Italia meridionale.
Ferramosca era massimo esperto in fatture e controfatture. Curava malocchio e malinconie. Era, insieme ai preti, il confessore dei poveri cristi. Il custode dei dolori della povera gente. Seppure a sua insaputa, era lo psicoterapeuta dei diseredati.
Mago Giuseppe aveva però le sue manie malandrine. Prediligeva le cure per le belle fanciulle che gli si rivolgevano. Cure ispirate da stimoli emintemente erotici: particolarmente famoso era il sistema dello specchietto posto in terra per riflettere il mistero celato in mezzo alle gambe. Erano i suoi “raggi X” che il mago assicurava di adoperare per effettuare le diagnosi alle malattie femminili. Tutta la sua carriera fu contraddistinta da questa vocazione di guaritore erotomane.
In quel tempo si ricorreva ai maghi quando si aveva un mal di testa: voleva dire che il malocchio aveva affascinato qualcuno. Ma anche quando ci si ammalava, quando nasceva un bambino non del tutto sano, quando un amore non era corrisposto o era contrastato dalle famiglie, quando da un matrimonio non nascevano figli.
Le donne, poi, sull’amore non potevano agire sul piano pratico: avrebbero compromesso la propria reputazione. Così attivavano particolari strategie semiclandestine per riuscire a far proprio comunque l’uomo desiderato. Usavano preparare filtri d’amore: mischiavano a caffè, liquori e altre bevande sangue catameniale e peli pubici. Preparavano i filtri magici che servivano a catturare il cuore dell’amato. Filtri che, per essere considerati efficacia, dovevano essere benedetti nel corso di riti religiosi. Era per questo che, ai giovani maschi, a scanso di equivoci, veniva caldamente sconsigliato di accettare bevande nelle case di fanciulle in cerca di marito. Così, tanto per evitare rischi di indebito ammaliamento. E di qualche infezione…
Ogni accadimento dell’esistenza era intriso di magia. E ogni negatività era attribuita allo sguardo ostile e malevolo, a una fattura che era stata fatta contro. Fattura che era necessario sciogliere per poter ritrovare pienamente salute, amore e capacità di agire.
Per questo si ricorreva a fattucchiere e fattucchieri. Spesso i guaritori erano gli stessi che avevano predisposto il maleficio.

AMULETI, SPIRITELLI E DEMONI
LA VITA MAGICA A CASTELMEZZANO

Dal malocchio e dalle maledizioni ci si poteva difendere con particolari accorgimenti. Gli amuleti servivano a questo. Ma nelle case si aggiravano spiritelli dispettosi e nelle strade, alla contr’ora, ci si poteva imbattere in presenze spaventose come i lupi mannari.
Gli affatturati si munivano di monili di difesa dal malocchio: ‘u sanganidd’, una specie di salice legato a un pezzo di spago. Per realizzarlo occorreva però rispettare alcune precauzioni onde evitare che l’amuleto perdesse di efficacia. Ad esempio, dopo aver spezzato un ramoscello di legno, tornando a casa, bisognava evitare di attraversare corsi d’acqua e crocivia.
Altri amuleti protettivi erano gli “abbatidd’”, sacchetti di tela nei quali venivano custoditi immagini di santi, cornetti di ferro o di osso, pallottole di piombo già esplose.
Nelle case si aggirava “u’ munacidd’”, piccolo demone dispettoso ma non terrorizzante, che si presentava con un berrettino rosso in testa e i piedi tondi. Era magico, ballava a ridosso dei muri, faceva sparire gli oggetti da casa e qualche volta si sedeva per dispetto sullo stomaco dei dormienti, trasformando il sonno dei malcapitati in incubi.
Si diceva anche, però, che chi fosse riuscito a sottrargli il cappello rosso, avrebbe potuto averlo in suo potere. Avrebbe persino potuto chiedergli, come riscatto, una cassa di monete d’oro.
U’ pummunar’ – il lupo mannaro – poteva essere maschio o femmina. Uomini o donne che, nelle notti di luna piena, manifestavano tutta la propria essenza di doppia natura: metà umana, metà bestia.
Il lupo mannaro, nell’immaginario popolare, era descritto pieno di peli irsuti, coperto con un lenzuolo per non farsi riconoscere. Si sdraiava nelle pozzanghere e il suo grido era manifestazione di ferocia animale. Ma anche il segno di un dolore atroce che il lupo mannaro si portava dentro. Chiunque avesse avuto la sventura di trovarsi sulla sua strada rischiava di essere sbranato.
La credenza vuole che era affetto da questo male chi nasceva la notte di Natale. Poteva essere sottratto al suo destino solo se una persona coraggiosa, nel momento in cui l’individuo era trasformato in pummunar’, gli procurava una ferita dalla quale far scorrere due gocce di sangue. Così il lupo poteva finalmente essere liberato dalla maledizione e poteva tornare a essere soltanto umano. Per riconoscenza, sarebbe diventato compare del proprio salvatore.